Sin dagli anni Settanta, complice la carenza legislativa nazionale ed internazionale, il nostro Paese fa ricorso al dumping ambientale per liberarsi dei propri rifiuti industriali. Il Sud del mondo è il principale destinatario delle sostanze più velenose e più costose da smaltire: Somalia, Guinea, Mozambico, Libano etc. Negli anni Ottanta le proteste ambientaliste e dei Paesi vittime dei traffici spingono le Nazioni Unite e i Paesi esportatori a riprendersi i rifiuti: partono dall’Italia diverse navi con il compito di rimediare al grave imbarazzo internazionale. Tra queste la Jolly Rosso, la Zanoobia, la Keren B vengono ingaggiate dal governo italiano per rimpatriare le sostanze tossiche esportate: verranno ricordate come le navi dei veleni.
Altra vittima eccellente dei trafficanti di rifiuti è il mare Mediterraneo. Qui ci finisce di tutto, a cominciare dagli scarichi industriali: il mare come un “tappeto” sotto cui nascondere la polvere più velenosa.
Ad esempio con le cosiddette navi a perdere, cioè scafi affondati volutamente insieme al loro carico di morte: un salto di qualità nella strategia criminale, perché si truffa l’assicurazione e si fa piazza pulita in un colpo solo di scorie tossiche e radioattive. Dagli anni Ottanta, come spiegano i tanti magistrati impegnati nel difficile lavoro di indagine, si muove su uno scenario internazionale una vera e propria holding con forti agganci economici ed istituzionali nei diversi Paesi. Grazie al coinvolgimento di imprenditori, faccendieri, massoni, pezzi di servizi segreti deviati, esponenti politici e criminalità organizzata prende piede quello che Legambiente, Wwf e Greenpeace definiscono “intrigo radioattivo”. Sta di fatto che sono tante le navi che affondano in maniera sospetta, senza lanciare may day, con carichi e destinazioni sospette. Navi che scompaiono dai radar, insieme ai loro equipaggi, senza motivo e proprio nei punti più profondi dello Jonio o del Tirreno. Navi che secondo testimonianze e documenti investigativi risultano essere state caricate di rifiuti tossici e/o radioattivi. Fino ad oggi non si è mai recuperato alcuno dei relitti sospetti e nessuno sa quali misteri nascondano.
Scrive il quotidiano Calabria Ora che secondo l’ammiraglio Bruno Branciforte, attuale capo dei Servizi segreti italiani, sarebbero 55 le navi affondate per occultare rifiuti tossici. Secondo la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIII legislatura sarebbero invece 39 gli affondamenti che non convincono, avvenuti tra il 1979 e il 1995. La stessa Commissione spiega che ogni nave carica di rifiuti porterebbe un guadagno di circa 10 miliardi di vecchie lire. Di una di queste, la Rigel, inabissata il 21 settembre del 1987, la magistratura ha accertato in tre gradi di giudizio l’affondamento fraudolento e la corruzione dei doganieri; come molte altre navi affondate trasportavano blocchi di cemento e granulato di marmo, sostanza capace di schermare le radiazioni. La Rigel è affondata al largo di Capo Spartivento, provincia di Reggio Calabria, in un punto ben preciso: nessuno fino ad oggi ha provato a recuperare il relitto.
Altre navi affondate in maniera sospette sono la Nicos 1, la Mikigan, la Four Star I, la Anni, la Rosso (spiaggiata ad Amantea), la Alessandro I, la Marco Polo, la Korabi Durres.
La Direzione investigativa antimafia in un documento del 2001 accerta che dal 1995 al 2000 sono scomparse nei mari del mondo ben 637 navi, di cui 52 nel Mediterraneo. Legambiente, comparando varie fonti, ne ha contate almeno 88 di navi che giacciono nei nostri fondali.
Gli anni Novanta sono anche quelli in cui una società, la Odm, pubblicizza e propone a diversi Paesi la possibilità di smaltire scorie nucleari attraverso dei siluri da sparare nelle profondità marine. La domanda che ci poniamo è se questo piano sia stato o meno effettivamente implementato.
Come è emerso in diverse inchieste, spesso ai traffici di rifiuti si sono intrecciati quelli delle armi: con ogni probabilità, proprio indagando su una di queste piste in Somalia sono stati uccisi nel 1994 la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.